EGianni Possio o del "suono che non c'è"


In tempi come questi in cui si vive, ostinatamente o meno, sopra le righe, la caccia ai tipi normali, quelli che quando parlano dicono delle cose, quelli che sono tendenzialmente onesti anche con se stessi e che per ciò stesso rischiano e pagano in proprio, quelli che - nel nostro caso specifico - scrivono musica così come ne hanno intenzione, è ormai un passatempo di pochi, obsoleto quando non controproducente; un affronto nei riguardi di una specie che appare sempre più in via di estinzione. Gianni Possio (Torino, 1953) rappresenta nel mesto perché passivo panorama dei compositori italiani contemporanei, una figura assai particolare: il suo sussiego professionale, per esempio, è talmente minimo da farci credere che questo musicista quasi non appartenga alla schiera dei "giovani compositori"; il suo impegno umano nel metter d'accordo vita e professione, poi, fa correre continui rischi di fraintendimento da parte dell'"ambiente" musicale (ma non del pubblico) e produce persino sgomento in lui stesso. Ma il professionismo, quello c'è, ed a piene mani.
Gianni Possio sconta da tempo la propria normalità con una serie di successi diffusi ma mai così eclatanti da portarlo alla ribalta delle cronache e dei mass-media; al virus della polemica pare immune, non a quello dell'intelligenza, per cui la sua carriera, da una quindicina d'anni a questa parte, si svolge al di fuori dei canoni della retorica comunicativa, del talk-show, dell'insulto giornalistico o televisivo con conseguente limitato clamore relativo alla sua figura o alla sua opera. In questo senso egli vive tra la latitudine della sapienza ed un labirinto delle astuzie, sperimentando quotidianamente l'instabilità della sorte e della fama, ovvero intrighi, dubbi, maldicenze, talora ricercati, talaltra, più raramente, rigettati su di lui da un consesso culturale e artistico regno dei sensali del sentire, quelli che tra l'altro hanno perseverato, più o meno artatamente, nell'errore di privilegiare nozioni come quella di post-moderno che ha il difetto di attribuire un significato filosofico ed essenziale alla normale alternanza dei gusti.
Si perde, in quest'epoca non più strana o incomprensibile, complessa o temibile, di una qualsiasi "contemporaneità", una relazione privilegiata con le arti e, anche attraverso di esse, con il conoscere; ci si limita al "sentire". Ma un sentire corrotto, delegato ad altri nella sua definizione di spazi e limiti d'azione. Si è soggetti passivi, si sopravvive (dimenticando che l'arte, la musica servono per vivere, per conferire senso all'esistenza, non per sopravvivere), non si accenna ad una possibile motilità dell'animo: la realtà imposta dall'esterno verso cui si approntano soltanto prese d'atto viene accettata e per di più giustificata, tendendo a dissolvere ogni asperità critica ed a risolvere in descrittivismo la cultura.
Possio però imbocca un'altra strada, depistando esegeti e detrattori che in questi anni lo han voluto inquadrare, incasellare, definire e quindi possedere, debellare; egli ricerca, attraverso la sua produzione musicale, che è poi il suo modo di essere e di raccontarsi, il rimedio contro l'angoscia del divenire (come ha peraltro affermato anche quell'unica mente lucida della musicologia italiana che risponde al nome di Gianfranco Zàccaro), pur non credendo, almeno fideisticamente, che il divenire debba necessariamente esistere. Anzi dubitando anche di questa fede e, per conseguenza, mettendo in questione la stessa logica del rimedio.
Per questo Gianni Possio vive e scrive musica, legge, respira, si emoziona, ascolta, vede e conduce il suo mestiere con la stessa libertà, la stessa discontinuità ideologica, lo stesso impegno e la stessa nonchalance con cui affronta l'esistenza.
Stefano Leoni